Il 1° maggio 2023 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il Decreto Lavoro, che taglierà di 4 punti percentuali il cuneo fiscale. In termini semplici, il cuneo fiscale è la differenza tra lo stipendio lordo, versato dal datore di lavoro, e la cifra netta percepita dal dipendente in busta paga. Nello specifico, questo taglio andrà ad aggiungersi a quello già effettuato tramite la Legge di Bilancio per i redditi inferiori ai 35mila euro annui.
Presentato come sostegno tangibile contro l’aumento del costo della vita, -parole del ministro Giorgetti- il Decreto Lavoro si pone l’obiettivo di fronteggiare l’annoso problema dell’inadeguatezza salariale italiana. L’idea alla base non è una novità: adeguare gli stipendi al costo della vita permetterà di aumentare i consumi della popolazione, creando più mercato per le imprese.
Ma un minore ammontare di trattenute in busta paga rappresenta una vera soluzione al problema?
Cosa cambia in busta paga?
Questa misura, valida da luglio a dicembre 2023, permetterà di appesantire le buste paga dei lavoratori con retribuzione lorda annua fino a 35mila euro. Più nel dettaglio:
- per retribuzioni fino a 25mila euro lo sconto percentuale salirà al 7 percento, contro il precedente taglio di 3 punti;
- per la fascia compresa tra i 25 e i 35mila, invece, il taglio percentuale arriverà al 6 percento, dai 2 punti di cui già godeva.
Stando alle elaborazioni dello studio De Fusco Labour & Legal, questi tagli si tradurranno in un aumento di 96 euro al mese circa per un reddito di 25mila euro e di circa 99 euro per un reddito di 35mila euro.
La situazione italiana
In base al rapporto Taxing Wages reso noto dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), nel 2021 il cuneo fiscale in Italia è stato del 46,5%, al quinto posto della classifica. In testa, il Belgio (52,6%), seguito da Germania (48,1%), Austria (47,8%) e Francia (47%).
Ciò nonostante, dall’elaborazione Openpolis sui dati Ocse, la variazione dello stipendio medio in base all’inflazione nel decennio 1990-2020 si è attestata ad un 25,5% per il Belgio, 33,7% per la Germania, 24,9% per l’Austria e un 31,1% per la Francia, contro lo scoraggiante primato italiano che segna un peggioramento del -2,9%. Questo implica che gli stipendi in Italia, a differenza di quanto accaduto negli altri Paesi con elevata pressione fiscale, non sono stati adeguati all’inflazione degli ultimi vent’anni. È, quindi, evidente come l’erosione del potere d’acquisto nel nostro caso sia multifattoriale.
Vi è poi un’ulteriore considerazione da fare: nel caso in cui l’Italia dovesse ridurre il debito pubblico dello 0,85% del Pil, così come previsto, per il governo sarebbe a dir poco difficile riuscire a reperire finanziamenti per un nuovo taglio del cuneo fiscale nel 2024. È, perciò, chiaro come questo genere di misura vada interpretata in un’ottica di temporaneità, più che come un’effettiva soluzione a medio-lungo raggio.
Il vero motivo per cui gli stipendi sono così bassi
Sempre dati Ocse alla mano, è possibile notare che la produttività generale dei fattori (manodopera, capitali, ecc.) è praticamente la stessa dal 1985 in Italia; eccezion fatta per il biennio 2020-21, dove la statistica è stata pesantemente influenzata dalla pandemia e dal lockdown.
In un contesto di scarsa produttività, le uniche due strategie per poter rimanere competitivi a livello internazionale consistono nel mantenere una bassa retribuzione, oppure applicare politiche economiche che vadano ad aumentare il debito pubblico per compensare la svalutazione del tasso di cambio. Da queste valutazioni, emerge il fatto che il vero nocciolo della questione non è tanto nella tassazione del lavoro, quanto nella mancata crescita economica del paese.
Certo, una delle cause di questo è dovuta all’elevata tassazione e alla difficoltà di accedere al credito (e il rapporto della Banca Mondiale, Doing Business, lo conferma), ma il Centro Studi Fondazione Ergo sottolinea come siano da prendere in considerazione anche la tendenza diffusa nel tessuto produttivo italiano a:
- Non investire in innovazione;
- Effettuare produzioni a basso contenuto tecnologico;
- Non investire abbastanza nella formazione dei lavoratori (con conseguente disallineamento tra domanda e offerta di lavoro);
- Non preparare adeguatamente i manager e gli imprenditori stessi.
Inoltre, secondo un ulteriore studio basato sulle statistiche Eurostat 2019-2021, oltre alle cause precedentemente nominate, a incidere sul valore del salario medio italiano, si aggiunge:
- Una forte discontinuità lavorativa (ricorso eccessivo a contratti di lavoro non standard);
- Una crescente presenza di qualifiche più basse (scarse quote di dirigenti, professioni intellettuali e scientifiche).
Conclusioni
Andando ad analizzare le cause del ristagno economico italiano, emerge quindi come il cuneo fiscale elevato sia solamente parte di una situazione più complessa e sfaccettata. In definitiva, riteniamo che il futuro dell’impresa italiana, più che fare affidamento su “soluzioni tampone”, come possono essere quella del taglio al cuneo fiscale, debba puntare a una strategia lungimirante, che miri a tornare competitiva sul panorama europeo e internazionale, tramite interventi di riqualificazione del tessuto produttivo.
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